Si è detto in più circostanze che l’art. 1117 c.c. contiene un’elencazione meramente esemplificativa dei beni che devono considerarsi comuni (ex multis Cass. 13 marzo 2009 n. 6175). Tra le cose non citate ma che, tuttavia, deve essere considerata di proprietà comune, ce lo dicono la dottrina e la giurisprudenza, va annoverato il decoro architettonico. Lo ha detto chiaramente la Corte di Cassazione allorquando ha affermato che " il decoro architettonico[…] e' un bene comune" (Cass. n. 8830 del 2008).
Lo stesso Supremo Collegio non si è limitato a includere il decoro tra i beni comuni ma, andando oltre, ne ha fornito la definizione. I giudici di legittimità hanno specificato che con tale locuzione " deve intendersi l'estetica del fabbricato data dall'insieme delle linee e delle strutture che connotano lo stabile stesso e gli imprimono una determinata, armonica fisionomia ed una specifica identità" (Cass. 851 del 2007).
Il codice civile vieta espressamente l’alterazione del decoro laddove la stessa sia conseguenza della deliberazione di innovazioni (cfr. art. 1120, terzo comma, c.c.). Vale la pena ricordare che con alterazione s’intende individuare “ un pregiudizio economico che comporti un deprezzamento sia dell’intero fabbricato che delle porzioni in esso comprese, per cui, sotto tale profilo, è necessario tener conto dello stato estetico del fabbricato al momento in cui l’innovazione viene posta in essere”(così Cass. 25 gennaio 2010 n. 1286).
La valutazione della sussistenza dell’alterazione del decoro architettonico è rimessa alla discrezionalità del giudice chiamato a decidere, sicché laddove la decisione sia adeguatamente motivata la stessa è incensurabile in Cassazione. Nei casi d’alterazione per opera deliberata dall’assemblea, lo strumento per evitarne gli effetti negativi è quello della impugnazione della delibera. Trattandosi di decisione nulla e quindi impugnabile in ogni tempo i condomini potranno farne valere l’invalidità anche in un momento successivo chiedendo, se già realizzata, la rimozione dell’opera. Resta salvo il diritto al risarcimento del danno.
Ci si è domandati se il divieto d’alterazione del decoro valga solo per le opere (siano o non siano esse innovative) deliberate dall’assemblea od anche per quelle effettuate su iniziativa del singolo condomino. Al riguardo la dottrina e giurisprudenza, unanimemente, ritengono che tra i limiti all’uso delle cose comuni da parte del singoli, ai sensi dell’art. 1102 c.c., debba essere ricompreso anche quello del divieto d’alterazione del decoro dello stabile.
Se l’alterazione è causata da più autonomi interventi di singoli condomini sulle parti comuni, non è obbligatorio agire congiuntamente contro gli stessi ben potendosi agire singolarmente contro gli stessi per l’accertamento delle singole cause d’alterazione. E’ questo in sintesi quanto detto dalla Suprema Corte di Cassazione, in una sentenza datata 2 agosto 2010, la n. 17997.
Nella fattispecie sottesa alla pronuncia di legittimità – relativa ad un’ipotesi di alterazione del decoro architettonico – alcune parti non citate in un precedente giudizio chiedevano venisse dichiarata la nullità della decisione resa al termine di quel procedimento cui non avevano potuto partecipare. Nel giudizio di merito si dichiarava la nullità della sentenza limitatamente alle parti attrici, che non avevano partecipato all’originario giudizio, e non per tutti gli altri interessati, che invece si erano ritualmente costituiti. Secondo la Cassazione, che ha confermato questa decisione, la sentenza di merito “ ha correttamente ritenuto che la nullità del rapporto processuale accertato non poteva avere alcuna incidenza su quello delle altre parti che avevano partecipato al giudizio in considerazione dell'autonomia delle parti e del petitum, atteso che la domanda proposta dagli attori originari riguardava la realizzazione dei vari manufatti costruiti da parte dei vari condomini nei rispettivi appartamenti in violazione delle prescrizioni del regolamento condominiale (secondo quanto emerge dalla stessa sentenza); l'analogia delle ragioni di diritto, se giustificavano la trattazione unitaria per ragioni di connessione, non comportava certo l'inscindibilità delle cause, che presuppone l'unicità del rapporto sostanziale o di quello processuale dedotto in giudizio, di guisa che la sentenza pronunciata nei confronti soltanto di alcuni dei litisconsorti sia inutiliter data” (Cass. 2 agosto 2010 n. 17997).
Fonte: www.condominioweb.com